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Per Aspera Ad Veritatem n.8
Fondazione Giovanni Agnelli

Un federalismo unitario e solidale (Terza ed ultima parte)





4. Le risorse del sistema: scenari di federalismo fiscale
Un sistema di federalismo fiscale è il fondamento dell'autogoverno di Regioni ed Enti locali; serve a responsabilizzare il comportamento finanziario di ogni livello di governo; appare più idoneo ad interpretare preferenze e necessità dei cittadini di ciascuna regione, superando la logica dell'uniformità; permette efficaci meccanismi di solidarietà fra cittadini e territori; contribuisce in modo sostanziale al risanamento del debito pubblico.


Per avviare un profondo disegno di riforma dello Stato in senso federale occorre allo stesso tempo agire sulle leve finanziarie e fiscali, che possono garantire ai livelli locali di governo le risorse necessarie per sostenersi. L'autogoverno delle risorse appare, in questa prospettiva, certamente un valore in sé, ma soprattutto una terapia decisiva per guarire i mali cronici della finanza pubblica italiana.
La Fondazione Agnelli ha elaborato alcuni scenari di federalismo fiscale per l'Italia, che vanno nella direzione di un'ampia autonomia impositiva di Regioni ed Enti locali, con la conseguente unificazione di centri di prelievo e centri di spesa, e si fanno carico di alcune patologie non trascurabili presenti nella situazione italiana, individuando, non una ma piuttosto una serie di possibili soluzioni tecniche. Lo scopo di questo esercizio, coerente con i percorsi di ricerca seguiti dalla Fondazione Agnelli in questi anni, è quello di mostrare come una forte autonomia delle Regioni e degli Enti locali sia possibile già oggi, a parità di regime fiscale e a parità di pressione fiscale. In questo senso, gli scenari di federalismo fiscale non potevano che fare riferimento all'assetto e alla legislazione attuali, senza presupporre alcuna variazione del quadro generale della fiscalità, che non fosse la trasformazione di alcune imposte statali già esistenti in altrettante imposte regionali. Si è scelto, in altre parole, di mantenere la questione della finanza regionale separata dalla questione della riforma fiscale.
Come è noto, una delle non poche anomalie italiane consiste nel fatto di avere oggi un livello di governo regionale, con poteri legislativi e responsabilità di spesa significative, caratterizzato da un livello di autonomia fiscale più modesto di quello attribuito agli Enti locali. Alla luce di questa considerazione e di quanto scritto nei capitoli precedenti, non sorprenderà che gli scenari di federalismo fiscale preparati dalla Fondazione Agnelli definiscano innanzitutto un quadro di finanza regionale, che peraltro tiene conto delle importanti e complesse relazioni fra le nuove Regioni e gli Enti locali, in accordo con quanto sostenuto nel capitolo 2.
Pur non potendo evitare, qua e là, qualche tecnicismo, per chiarire il senso complessivo dell'ipotesi di federalismo fiscale sembra opportuno ancorarne la descrizione ad alcuni interrogativi di immediato significato politico ed economico, che i lettori riconosceranno come nodi importanti della crisi italiana.

In che modo il federalismo fiscale può servire a responsabilizzare il comportamento finanziario delle Regioni e degli Enti locali?
Responsabilizzare i comportamenti di bilancio delle regioni, obbligando questi governi a rendere trasparenti non solo i benefici delle politiche, ma anche i costi finanziari che esse comportano, è, in effetti, il principale obiettivo del federalismo fiscale.
Per raggiungere tale obiettivo le Regioni devono avere la possibilità di variare l'ammontare delle risorse a loro disposizione con decisioni proprie, queste ultime ancorate a una potestà legislativa in materia tributaria. E' infatti assolutamente indispensabile che le risorse messe a disposizione delle regioni possano essere adeguate quantitativamente ai fabbisogni per le funzioni di spesa di cui si assumono le competenze. Per quanto in apparenza del tutto ovvia, simile sottolineatura è necessaria per segnalare l'esigenza di superare la prassi, costante nelle nostre leggi di bilancio, di finanziare gli enti sub-nazionali con risorse la cui inadeguatezza è nota fin dal momento dell'approvazione del bilancio.
Di conseguenza, la riforma qui presentata dota ogni Regione di entrate tributarie proprie, di cui può variare il peso imposto ai contribuenti soprattutto mediante modificazioni di aliquote.
Con la possibilità di operare in autonomia al livello del reperimento delle risorse, i governi regionali dovranno necessariamente assumersi la responsabilità di trovare il giusto equilibrio fra entrate e fabbisogni di spesa.
Per quanto riguarda la struttura di base del sistema, nella attribuzione di concrete competenze di spesa ai vari livelli di governo si è adottata una ripartizione assai prudente. Accanto alle competenze attuali, di cui sarebbe resa possibile l'effettiva autonoma gestione (sanità, formazione, trasporto locale) nel modello sono state contabilizzate le competenze su quelle materie, intorno al cui trasferimento alle Regioni esiste un soddisfacente consenso. Tali competenze di spesa hanno gravato sul bilancio dello Stato nel 1993 per circa 74.000 miliardi. Esistono ulteriori voci di spesa statale che, secondo le ipotesi fatte nel capitolo precedente, sarebbe congruente spostare gradualmente alla competenza regionale: completando ad esempio il trasferimento delle funzioni relative all'istruzione anche nell'ambito universitario, di parti più cospicue delle risorse orientate alle politiche attive del lavoro e alla diffusione dell'innovazione, delle competenze in materia di trasporto ferroviario su scala regionale, etc. Rispetto alle ipotesi più analiticamente esplorate dalla ricerca, si può stimare in ulteriori 30.000 miliardi la quantità complessiva di risorse che in un sistema più decisamente orientato in senso federale potrebbero andare ad aumentare le competenze decentrate.
Pensato per garantire le risorse necessarie al trasferimento di nuove competenze regionali, il sistema di federalismo fiscale opera sul lato delle entrate per rispondere alle seguenti ulteriori trasformazioni del sistema:
a) abolizione degli attuali trasferimenti generali e specifici dallo Stato alle Regioni ordinarie, e dei conseguenti vincoli all'uso delle risorse. L'importo complessivo in questione è al 1993 di 43.000 miliardi. Ciò comporterebbe tra l'altro l'attribuzione alle Regioni di reali competenze decisive in materie quali sanità e trasporto locale;
b) trasferimento alle Regioni delle competenze di finanziamento degli Enti locali in funzione perequativa rispetto alle attuali entrate proprie di natura fiscale e tariffaria. L'importo in questione per il 1993 ammonta a 11.500 miliardi.
Per fronteggiare questo ingente volume di nuove responsabilità di spesa regionale (per un totale di circa 130.000 miliardi) si suggerisce (si veda la tabella in questa pagina) la creazione di nuove imposte proprie regionali, sostitutive di altrettante imposte statali, in quanto ciò permette l'esercizio di un più ampio ed effettivo esercizio di potestà regionale in materia tributaria.
In aggiunta, si prevede la creazione di una riserva di applicazione di un'aliquota proporzionale alla base imponibile dell'IRPEF.
In corrispondenza di questa facoltà impositiva regionale, lo Stato dovrà modificare la scala di aliquote in modo tale da mantenere invariato il peso complessivo di questa imposta. Nel momento iniziale della riforma le Regioni applicheranno le aliquote in vigore, ma già dall'esercizio successivo avranno facoltà di variazione delle aliquote entro un limite minimo e massimo previsto dalla legge di riforma. Come detto, uno degli strumenti principali per avviare una responsabilizzazione dei comportamenti di bilancio delle regioni sta infatti proprio nella possibilità di variare la pressione fiscale in parallelo alle decisioni di spesa.
Si può osservare, a questo proposito, come l'esperienza internazionale suggerisca una relazione virtuosa fra responsabilizzazione finanziaria delle amministrazioni locali e riduzione della pressione fiscale complessiva. Non è, infatti casuale che le nazioni che si sono date un'organizzazione federale tendano ad avere, a parità di sviluppo economico e di politiche delle spesa pubblica, tassi di pressione fiscale generalmente più bassi. Si tratta, in qualche misura, del risultato dei positivi elementi di competizione tra amministrazioni diverse che il federalismo introduce. E' infatti evidente che l'amministrazione che riesce ad essere più efficiente e, cioè, a parità di qualità di servizi, diminuisce la pressione fiscale sui cittadini-elettori ha maggiori probabilità di essere poi premiata a livello politico. Gli esempi internazionali ci dicono ancora che in anni recenti la competizione fra governi locali in un assetto federale si è spostata dal versante della maggior quantità di spesa (più welfare) al versante del prelievo, attraverso il ribasso delle aliquote e altre misure che alleviano la pressione fiscale.
A tutela delle ragioni dell'autonomia, il sistema di entrate regionali proposto non solo dovrebbe avere caratteristiche di stabilità nel tempo, ma non dovrebbe neppure essere suscettibile di modificazioni unilaterali ed improvvise da parte del governo centrale. Di conseguenza, esso ha la necessità di essere garantito sotto il profilo costituzionale tanto attraverso l'esplicitazione (in una nuova formulazione dell'art.119) dei criteri fondamentali, quanto sul terreno delle procedure da adottare per le approvazioni delle leggi di carattere finanziario e fiscale, la cui definizione vedrebbe un ruolo specifico di una futura Camera o Senato delle Regioni.

Come può il federalismo fiscale essere utile per soddisfare le preferenze e le necessità dei cittadini delle diverse regioni?
La risposta a questo interrogativo è che un sistema di federalismo fiscale implica un certo livello di differenziazione nell'offerta di beni pubblici da parte delle varie amministrazioni. Tale differenziazione dipende proprio dalle diverse esigenze o preferenze dei cittadini, oltre che, naturalmente, dall'ammontare delle risorse a disposizione. In altre parole, con il federalismo fiscale si verifica il superamento della logica dell'uniformità, ossia della pretesa di stabilire centralisticamente le modalità di erogazione di identici servizi in tutto il territorio nazionale.
In questo caso si tratta di infrangere un autentico dogma della cultura dello Stato centralista, un dogma a cui peraltro raramente seguono fatti concreti, se consideriamo che alla presunta uniformità delle regole raramente corrisponde un'uniformità dei risultati ottenuti nelle diverse regioni. Comunque sia, in un'organizzazione di tipo federale le cose cambiano. Se, infatti, davvero si crede nelle ragioni dell'autonomia e dell'autogoverno, si deve accettare che in una repubblica federale esista una differenziazione dei servizi erogati dalle diverse amministrazioni come pure della tipologia e dell'entità dei prelievi. Naturalmente, tale differenziazione non può mettere in discussione alcuni fondamentali diritti di cittadinanza sociale.
Il superamento della logica dell'uniformità è una componente essenziale di tutti i sistemi federali e permette di affrontare in modo più efficace i problemi specifici di ciascuna regione. Limitandosi, per fare un esempio, ai diversi problemi originati dalle dinamiche demografiche delle regioni italiane, notevolmente differenziate l'una dall'altra, si può ipotizzare che la tipologia e l'entità dei servizi finalizzati all'assistenza degli anziani potrebbero essere in Liguria o in Piemonte (regioni nelle quali si registrano un elevato tasso di invecchiamento e un'accentuata contrazione delle dimensioni dei nuclei familiari) assai differenti rispetto a regioni come Campania o Puglia, che invece ancora non risentono gravemente dei fenomeni di invecchiamento della popolazione e anzi per qualche anno continueranno a registrare incrementi nella popolazione giovanile. A loro volta, magari, queste ultime regioni potrebbero avere bisogno di avere politiche di intervento più incisive proprio nel settore dei servizi per l'infanzia e la gioventù.

In che modo il federalismo fiscale rende possibile la solidarietà tra i territori?
L'aspetto davvero qualificante del modo in cui il principio di solidarietà diventa azione concreta in un sistema di federalismo fiscale, è che esso non deve indebolire il principio di responsabilità. In altre parole, i trasferimenti perequativi a favore delle Regioni meno sviluppate devono essere tali da stimolarne la responsabilità fiscale e non possono quindi compensare carenze di gettito tributario dovute a cattiva amministrazione, o all'applicazione di aliquote più basse della media nazionale; né devono indebolire l'incentivo diretto dei governi regionali a stimolare la crescita delle relative economie.
Nel modello suggerito (derivato da quello canadese), la perequazione delle Regioni con minore gettito viene effettuata in riferimento alla differenza fra la capacità fiscale potenziale della Regione beneficiata, laddove per capacità fiscale potenziale si intende la somma della base imponibile di tutti i tributi propri delle Regioni, nonché dei Comuni e delle Province. L'aggiunta di questi ultimi è determinata dal fatto che alle Regioni viene assegnato, come si è detto, il compito di effettuare trasferimenti perequativi agli Enti locali.
Più precisamente la perequazione tende a equilibrare la risorse fra Regioni che hanno livelli di reddito diversi, a condizione che anche quelle meno dotate applichino aliquote almeno uguali alla media nazionale e facciano quanto è in loro potere per scoraggiare l'evasione. In questo modo si stimola lo sforzo fiscale delle Regioni che beneficiano della perequazione, premiando comportamenti in cui si manifesta praticamente il principio di responsabilità. Ad esempio, se una regione beneficiaria di trasferimenti perequativi aumenta il proprio sforzo fiscale, elevando le aliquote, non solo il trasferimento perequativo non si interrompe, ma può addirittura aumentare, in quanto lo sforzo fiscale fatto è servito ad elevare l'aliquota media nazionale.
Nei diversi scenari di federalismo fiscale i livelli di perequazione possono essere stabiliti con riferimento alla media Italia (è l'ipotesi meno generosa), o a quella delle Regioni del Centro-Nord, o ancora a quella delle sole regioni del Nord.
Va notato come il risultato dell'adozione di seri modelli perequativi non sia, di regola, una penalizzazione del Sud, come temono alcuni critici del federalismo. Le grandi Regioni meridionali a Statuto Ordinario, quali Puglia e Campania, non sono infatti chiamate ad operare aggiustamenti più severi di quelli imposti mediamente al paese; anzi, esse sono nella maggior parte dei casi meno colpite dai nuovi vincoli. Le Regioni ordinarie del Mezzogiorno di piccole dimensioni devono invece fare i conti con grandi squilibri tra le loro basi imponibili e i loro livelli di spesa, ben oltre quanto possa essere compensato attraverso il sistema perequativo; ma ciò riguarda anche le Regioni minori del Centro-Nord, a riprova del ruolo svolto dalla taglia territoriale nel determinare gli equilibri finanziari regionali.
I trasferimenti perequativi e le nuove imposte regionali sostituiscono in modo pressoché integrale gli attuali trasferimenti dello Stato alle Regioni, alle Provincie e ai Comuni. Fanno eccezione i soli trasferimenti per il riequilibro territoriale, che si sono tenuti in vita separatamente in considerazione del fatto che è difficile fondere le esigenze di un sistema di finanziamento ordinario dei governi sub-centrali con quelle di colmare un divario di reddito, che ha origini, dimensioni e caratteristiche straordinarie.
Per misurare il grado effettivo di solidarietà incorporato nei modelli proposti, inoltre, va chiarito che la perequazione "esplicita" non rappresenta l'unica forma di ridistribuzione territoriale incorporata nel sistema. Si è già detto dell'effetto perequativo implicito nel modello adottato per la finanza locale e si sono appena ricordati i finanziamenti straordinari aggiuntivi per lo sviluppo. Ma va aggiunto che se, per certi versi, la spesa regionale costituisce la "mano destra" dell'intervento pubblico, ad essa si aggiunge una perequazione anche a riguardo della "mano sinistra" che rimane di competenza dello Stato: ordine pubblico e giustizia, in primo luogo; ma anche grandi infrastrutture e spesa previdenziale. Si tratta di servizi che vengono erogati in gran parte sulla base di una logica di uniformità di esborso pro-capite su base nazionale, ma che vengono finanziati grazie ad un prelievo fiscale che è proporzionale al reddito. Analogo ragionamento vale per i fondi comunitari. Ne consegue una forma di ulteriore perequazione implicita, attraverso la quale le aree più ricche onorano i loro doveri di solidarietà nazionale.

Come può il federalismo fiscale contribuire al risanamento della finanza pubblica del nostro paese?
In questo caso si deve dare risposta a una preoccupazione piuttosto diffusa: quella che un decentramento accentuato delle competenze di spesa e di prelievo possa mettere in ulteriore serio pericolo il quadro della finanza pubblica, che essa sia cioè incompatibile con una politica di rientro del debito pubblico. E' possibile argomentare che tale preoccupazione è ampiamente immotivata.
Si osservi, in primo luogo, che la politica di rigida centralizzazione finora seguita - in base alla quale la spesa delle Regioni, delle Provincie e dei Comuni è controllata quantitativamente tramite finanziamenti statali - non ha dato i risultati sperati. Negli ultimi dieci anni, infatti, la quota della spesa dei governi sub-nazionali sul totale della spesa pubblica ha continuato ad aumentare, quando il confronto è effettuato al netto degli interessi.
In secondo luogo, si può ipotizzare che la spinta all'aumento della spesa regionale e locale sia assai più controllata in un sistema di decentramento fiscale che in un sistema fortemente centralizzato, dato che nel primo caso ogni aumento di spesa deve essere confrontato con il costo, in termini di maggiore prelievo, che esso comporta.
In terzo luogo, nella nostra ipotesi di federalismo fiscale al governo centrale rimangono comunque le responsabilità di gestione dei tributi più incisivi sotto il profilo delle politiche di stabilizzazione, l'IVA, l'IRPEG e la quota maggiore dell'IRPEF.
Fatte queste premesse, sembra potersi sostenere che un modello federale è in grado di garantire, attraverso il decentramento del vincolo di equilibrio finanziario, non solo che non si riproducano più i comportamenti perversi che hanno alimentato la voragine del debito pubblico italiano, ma anche qualcosa di più: un sostegno già a medio termine al processo di rientro,.
Il punto di partenza della nostra ricerca, e di qualunque riflessione in merito che voglia essere realistica, è dunque rappresentato da uno scenario di rientro del debito pubblico dal quale si sono desunte le coordinate generali del sistema proposto, tra cui la necessità di ottenere forti risparmi anche nelle voci trasferite alla competenza regionale.
Nel breve periodo, uno scenario del genere incorpora elementi di un gioco a somma zero; in altre parola, non si possono immaginare vantaggi per tutti, e qualcuno deve pagare. E' importante che ciò avvenga in modo equilibrato, e rispettoso dei valori di fondo.
L'esigenza di realizzare in tempi brevi risparmi significativi comporta comunque che in nessun caso la "spesa storica", il "fabbisogno", o più genericamente lo status quo possano essere considerati un criterio ispiratore dell'assetto fiscale verso il quale tendere.
Se la situazione di partenza va ovviamente tenuta presente nei momenti di avvio del sistema, e nella fase di transizione, sarebbe assurdo pretendere di cristallizzare gli equilibri territoriali di spesa ereditati dalle passate gestioni (in buona misura né equi, né efficienti). Si tratta di gestire una fase di transizione: ma tale fase deve essere chiaramente determinata nella sua durata, e l'assetto finale deve essere definito in termini certi e trasparenti, evitando una proliferazione di regole ad hoc. Una misura approssimativa dello sforzo di riequilibro finanziario dei conti pubblici che si intende delegare alle Regioni è rappresentata dalla "taratura" iniziale del nuovo sistema di finanziamento.
In essenza, il sistema di entrate proposto serve a fronteggiare le competenze devolute e i trasferimenti aboliti. Poiché esso è basato su imposte proprie, il gettito assicurato da queste ultime varia da Regione a Regione in relazione alla base imponibile e alla possibilità di variare le aliquote entro limiti stabiliti per legge.
Esiste poi un'ulteriore forma di copertura che dipende, come si è visto, dalla regionalizzazione di una quota di gettito IRPEF. E' proprio la maggiore o minore estensione di tale quota a rappresentare l'elemento di taratura del sistema, più o meno generoso nei confronti dei governi regionali.
Tenendo conto che a ciascuno dei diversi livelli di taratura del sistema possono poi corrispondere livelli diversi di trasferimenti perequativi, che a loro volta possono poi corrispondere livelli diversi di trasferimenti perequativi, che a loro volta possono determinare variazioni nell'entità del risparmio, si può affermare con un minimo di semplificazione che tanto minore sarà l'entità della quota di gettito IRPEF regionalizzata, tanto maggiore sarà il risparmio realizzato e il beneficio per le finanze dell'intero settore pubblico. In altre parole, a parità di prelievo fiscale complessivo, una quota maggiore dello stesso potrebbe essere utilizzata per la riduzione del disavanzo.
Nel sistema si considerano tre livelli diversi di taratura. Il primo assicura la copertura integrale della spesa per la Regione con capacità fiscale più elevata, la Lombardia, - data dalla somma delle basi imponibili delle imposte devolute - e una copertura parziale per quelle con capacità fiscale minore. Queste potranno beneficiare di trasferimenti perequativi, a loro volta più o meno intensi a seconda dell'incisività della perequazione e della loro capacità fiscale. Il risparmio prevedibile a questo livello di taratura (che utilizza una riserva di aliquota IRPEF del 4,2%) può variare dai 38.000 miliardi con la perequazione effettuata rispetto alla capacità fiscale media italiana (la soluzione perequativa meno generosa) ai 24.000 miliardi risparmiati quando la perequazione viene riferita alla media delle regioni del Nord.
Il secondo livello, meno generoso, assicura la copertura al 90% della spesa della Regione con capacità fiscale più elevata e utilizza a questo fine una riserva di aliquota IRPEF notevolmente inferiore a quella della taratura precedente, soltanto dell'1,5%. Anche questo livello di taratura rende necessari i trasferimenti perequativi, ma ad un livello meno incisivo, dato che le "punte", cioè le dotazioni finanziarie delle Regioni più ricche sono tagliate da questa taratura. I sacrifici richiesti ai governi regionali in cambio della nuova autonomia acquisita sono in questo caso inizialmente più intensi. E, di conseguenza, possono aumentare i risparmi, che a questo livello di taratura possono variare fra i 58.000 e i 46.000 miliardi.
Il terzo livello di taratura porta la copertura ad un livello pari al 90 % della spesa media per le competenze decentrate di tutte le Regioni.
Esso porta ad esiti diversi dai due precedenti, perché ha l'effetto di attribuire alle Regioni con capacità fiscale elevata un livello di risorse in eccesso a quello osservabile al momento del trasferimento delle competenze, in quanto le Regioni più ricche non sono, attualmente, quelle con la maggiore spesa pubblica. Ciò rende necessaria una modificazione del sistema di perequazione, che da verticale o "paterna" - operata cioè direttamente tra Stato e Regioni - diventa orizzontale o "fraterna", operata trasferendo direttamente il surplus dalle Regioni beneficiate dalla taratura a quelle svantaggiate da esse. L'aliquota di riserva IRPEF sale notevolmente (al 9,7%) e il risparmio complessivo scende a circa 18.500 miliardi, dato che le Regioni a maggior base imponibile si avvalgono di un maggior gettito IRPEF.
Quest'ultimo livello di taratura del modello di federalismo fiscale è quello che complessivamente richiede alle Regioni minori sforzi e tagli alla "spesa storica" più contenuti.
Per concludere, occorre ancora ricordare che per illustrare il funzionamento concreto del sistema si è preferito non offrire un'unica soluzione, ma un ventaglio di opzioni, coerenti con i punti qualificanti fin qui richiamati. I modelli si differenziano, oltre che per i livelli di "taratura" del sistema e per la maggiore e minore incisività dei sistemi perequativi, anche sotto il profilo del differenziale di trattamento fra le Regioni a Statuto Ordinario e quelle a Statuto Speciale (ad eccezione dei trasferimenti specifici a favore di queste ultime che vengono mantenuti, in relazione ad esempio ai problemi del bilinguismo e dell'insularità).
Gli altri modelli prevedono forme attenuate di omologazione.
In ogni caso, per un esame più dettagliato dei diversi scenari di federalismo fiscale si rimanda al "Contributo di ricerca" Una proposta di federalismo fiscale, Fondazione Giovanni Agnelli, luglio 1994.
Una volta messo a regime, il sistema proposto comporterebbe un equilibrio di poteri di prelievo e di spesa tra i vari livelli territoriali di governo del tutto in linea con quelli registrati nei sistemi federali europei e americani.
Va osservato come sul terreno della spesa lo Stato eserciterebbe un insieme di competenze discrezionali, ovvero al netto del servizio del debito, le cui dimensioni sarebbero praticamente analoghe all'insieme esercitato dal sistema delle Regioni, e decisamente inferiori rispetto all'insieme del sistema periferico (Regioni più enti locali).

5. Nuova Costituzione ed Europa
La nuova Costituzione repubblicana deve seguire l'esempio di altre Costituzioni europee a fare propri alcuni princìpi, che ne definiscano l'adesione alle prospettive e ai trattati fondamentali dell'Unione Europea. La revisione costituzionale offre l'occasione non solo per definire i rapporti fra Regioni, Stato federale e istituzioni europee, ma anche per introdurre nel nostro ordinamento elementi di una costituzione economica.

Si è sovente individuato un nesso, a dire il vero più simbolico che reale, tra costruzione dell'unità europea e rafforzamento delle autonomie regionali, talvolta affacciando l'ipotesi di una "Europa delle regioni". Un'ipotesi siffatta sembra tuttora molto vaga e non necessariamente auspicabile. Al contrario, non è più utopico sostenere che la dimensione regionale abbia assunto un importante rilievo europeo. I meccanismi e le istituzioni della Unione Europea stanno in effetti adeguandosi, con qualche lentezza ma in modo irreversibile, ad una realtà continentale nella quale gli stati di ispirazione federale o a "regionalismo forte", a differenza di quanto accadeva al momento della stesura del trattato di Roma, stanno diventando sempre più numerosi e influenti.
Un modello di tipo neo-regionalista fa ormai parte del diritto comune europeo, tanto se inteso come terreno di convergenza degli ordinamenti nazionali, quanto se letto al livello stricto sensu comunitario. Il Parlamento Europeo ha adottato una "carta comunitaria della regionalizzazione" fino dal 1988, poi rafforzata da successive dichiarazioni e direttive. Il principio di sussidiarietà è stato esplicitamente assunto dal Trattato di Maastricht, con ciò dando ulteriore impulso in direzione di un federalismo regionalista. L'avere in tale sede indicato il principio secondo il quale le decisioni devono essere prese "il più possibile vicino ai cittadini" implica un riconoscimento europeo della rilevanza dei livelli decisionali sub-statuali.
Il neonato "Comitato delle Regioni", previsto dallo stesso Trattato, appare un'evoluzione importante in questa direzione, sebbene insufficiente nella sua forma attuale; la sua istituzione pare giustificata solo se si presume che esso sia chiamato a un destino più alto di quanto non lascino intravedere le sue competenze attuali.
In ogni caso, l'Unione Europea ha creato nel suo ordinamento una sorta di soggettività regionale, dialoga con i governi regionali con sempre minori intermediazioni statuali e riconosce in modo crescente le Regioni come istituzioni di riferimento per l'elaborazione e l'attuazione delle politiche dell'Unione, così come per lo sviluppo di forme di cooperazione economica, sociale e culturale tra aree diverse. Un federalismo basato sulle Regioni, o un regionalismo che si muove in direzione federale è così diventato una sorta di "massima" del diritto europeo, nonché un livello ineliminabile del processo di definizione e attuazione delle politiche; al punto che paesi non ancora regionalizzati, come la Gran Bretagna, stanno pensando di muoversi in tale direzione proprio per meglio integrarsi nel sistema dell'Unione Europea, e saperne così cogliere tutti i vantaggi.
Non è dunque eccessivo dire che non solo esiste una compatibilità evidente tra revisione federalista della Costituzione Italiana e costruzione dell'Unione Europea: ma che è proprio la dimensione europea, tanto sul piano istituzionale e giuridico, quanto su quello politico-economico, a spingere decisamente in tale direzione. Un progetto di riforma dello Stato dovrà dunque tener conto di questa prospettiva.
L'articolo europeo. In particolare, l'occasione di una revisione costituzionale va colta per inserire nella nuova carta un effettivo riconoscimento dei progressi realizzati in direzione dell'Unione Europea e del mutato ruolo delle istituzioni europee nei loro rapporti con gli stati membri. Si tratta di rendere possibile un efficace funzionamento del sistema attraverso una coerente delineazione delle funzioni dei vari livelli di governo e normazione, e una individuazione delle forme di integrazione che devono tra di loro instaurarsi. Ed è bene notare innanzitutto come oggi tali livelli siano tre (unione Europea, Stato, Regione), e non più due.
Come infatti sappiamo, l'Unione Europea esercita, se non vere e proprie competenze legislative, funzioni normative e di governo di grande rilievo, tanto in alcune materie che, in un'ipotesi federale, rimarrebbero allo Stato centrale, quanto in materie che potrebbero essere trasferite alle Regioni. Vi sono poi alcuni ambiti in cui l'Unione detiene già fin d'ora una sorta di competenza esclusiva (politiche, commerciali verso paesi terzi, tutela della libera concorrenza politiche monetarie esercitate nell'ambito del sistema europeo delle banche centrali), nel senso di poter definire politiche ed emanare direttive che vincolano l'azione dei paesi membri, e nel senso di rappresentarne i loro interessi su scala globale.
Sembrano dunque urgenti alcuni interventi di riforma volti a ricostituire condizioni di coerenza nel sistema istituzionale.
Quale premessa di ogni altra revisione, è necessario riconoscere le natura sovranazionale dell'Unione Europea e la possibilità di trasferimento di poteri sovrani a una siffatta comunità. Esiste dunque la necessità di introdurre nella Costituzione italiana qualcosa di analogo a un "articolo europeo", come è già accaduto in Germania e Francia, che consenta di rendere costituzionalmente fondato il processo di integrazione e le rinunzie di sovranità che esso comporta, e che al tempo stesso delinei con chiarezza le modalità ed i controlli con cui questa devoluzione di poteri debba avvenire.
Le regioni nello spazio europeo. Poiché le rinunzie di sovranità e, più in generale, le definizione di politiche pubbliche su scala europea, riguarderanno anche competenze di carattere regionale, va garantito il coinvolgimento di tale livello istituzionale nella definizione del processo di integrazione europea. La strada più efficace passa attraverso la trasformazione di uno dei rami del Parlamento in Camera o Senato delle Regioni, come accennato nel capitolo 2. Analogamente a quanto accade in Germania, alla Camera o Senato delle Regioni dovrebbero infatti essere attribuite le competenze in materia di affari europei, così che attraverso il suo funzionamento le Regioni possano partecipare a pieno titolo alla produzione legislativa e alla definizione degli orientamenti di politica comunitaria. Un'utile ispirazione viene appunto dal nuovo art.50 della Legge Fondamentale tedesca "Attraverso il Bundesrat, i Länder collaborano alla legislazione e all'amministrazione della Federazione e negli affari dell'Unione Europea" e dall'art.23 secondo il quale il Bundesrat deve dare il suo assenso ai trasferimenti di sovranità e "deve essere reso partecipe alla formazione della volontà della Federazione se e nella misura in cui gli spettasse di partecipare a corrispondenti atti interni dello Stato, o in cui la competenza all'interno dello Stato spettasse al Länder".
Ciò garantirebbe un coinvolgimento delle regioni nella fase "ascendente" della elaborazione delle politiche della Repubblica in ambito europeo. Ma va contestualmente risolto anche il problema della "fase discendente" della dimensione europea, ovvero la suddivisione delle competenze relativamente all'adattamento della legislazione italiana alle norme di diritto comunitario.
Sembra opportuno ribadire e rafforzare in sede costituzionale un orientamento già emerso nelle decisioni della Corte di giustizia delle Comunità europee, volto a superare i limiti posti alla capacità delle Regioni di attuare il diritto comunitario direttamente applicabile, operando attraverso la propria legislazione l'adattamento secondario delle norme. Ciò riguarderebbe non solo le direttive comunitarie, ma anche gli atti normativi comunitari che non si presentano come direttive, ma che hanno effetto diretto sugli ordinamenti interni dello Stato italiano. Resterebbe allo Stato un potere sostitutivo o una facoltà di "ricorso in carenza" contro la Regione inadempiente.
Ulteriori riflessi della specificità della dimensione europea, che non può più essere considerata stricto sensu internazionale, dovrebbero riguardare le modalità di inquadramento costituzionale di alcune prassi correnti.
Sembra innanzitutto coerente riconoscere che, poiché le Regioni (e le stesse città) sono chiamate a svolgere ruoli diretti nel "Comitato delle Regioni", siano esse stesse a designare i componenti degli organi comunitari destinati a rappresentarle. Andrebbe inoltre inquadrata, ma consentita, la instaurazione di rapporti il più possibili diretti delle Regioni con Bruxelles negli ambiti di propria competenza, in quanto tali rapporti siano necessari per gestire efficacemente politiche pubbliche che vedono sempre più integrati a livello regionale e livello comunitario (è il caso del Fondo Sociale Europeo, del Fondo Europeo per lo Sviluppo Regionale, dei fondi agricoli, etc.). Infine, discende direttamente dalla natura non internazionalistica dello spazio comunitario europeo la definizione costituzionale di una competenza regionale sul terreno delle relazioni con omologhi enti di governo territoriale di altri stati. Tale competenza potrebbe essere definita da "trattati quadro", volti a rendere più agevoli i rapporti tra regioni trans-frontaliere, la definizione e gestione di aree di interesse comune, e tutta la vasta area della para-diplomazia europea che sembra sempre più parte dell'attività dei governi regionali (e spesso cittadini).
La costituzione economica. Se sul terreno dell'ordinamento interno italiano, le revisioni indicate sembrano elementi essenziali nella direzione di un adeguamento alla dimensiona europea, sembra importante chiedersi fino a che punto, al di là di ulteriori ipotesi di riforma, l'ordine costituzionale italiano si possa ritenere già fin d'ora modificato dal Trattato di Maastricht e dalla nascita della Unione Europea, anche e soprattutto sul piano della costituzione economica.
L'Atto unico europeo e il trattato sull'Unione Europea hanno infatti comportato la solenne introduzione di princìpi normativi che nel loro complesso possano configurare una sorta di costituzione economica. Sembrerebbe da ciò discendere la necessità di un riconoscimento in sede di revisione costituzionale del fatto che l'Italia intende muoversi in conformità con gli obiettivi dell'Unione Europea, attuando politiche economiche e monetarie basate sull'accettazione dei seguenti princìpi normativi:
- un'economia di mercato e di libera concorrenza;
- un alto grado di stabilità dei prezzi;
- una finanza pubblica in condizioni sane;
- una disciplina monetaria coerente con tali principi, nel rispetto della autonomia della Banca centrale europea e della Banche centrali nazionali.
Come si è detto, ciascuno di questi obiettivi è esplicitamente previsto nei trattati europei a cui l'Italia ha aderito; un adattamento della nostra Costituzione a tali princìpi normativi sembrerebbe comportare interventi sull'art.41, e un rafforzamento della disciplina di un bilancio prevista dall'art.81.
Ma proprio la trasformazione in senso federale della nostra Repubblica sembra imporre con forza ancora maggiore la definizione di "una costituzione economica". In effetti, il rafforzamento di una logica di autogoverno regionale e municipale comporta la graduale eliminazione dei controlli di carattere gerarchico operati dal centro e il ridimensionamento dei vincoli di carattere legislativo, regolamentare etc., che hanno così gravemente compresso negli anni recenti gli spazi delle autonomie locali. Un essenziale elemento di coerenza del sistema è dato dall'adozione di un sistema di federalismo fiscale, che di per sé solo determina la generalizzazione di forti e non negoziabili vincoli di bilancio. Ma sembra importante definire in parallelo un quadro costituzionale di princìpi economici che valga per la Repubblica (ossia Stato, Regioni e Enti locali) nel suo insieme. La definizione di un condiviso insieme di regole economico- finanziarie valide per tutti i livelli di governo gioverebbe a superare l'attuale sistema centralizzato, senza tuttavia far correre il rischio di una caotica disarticolazione. Anche a questo fine, il quadro dei vincoli imposti dal Trattato di Maastricht, opportunamente riformulati per quanto riguarda il livello regionale e locale nella nuova stesura dell'art.119, potrebbe rappresentare un utile riferimento.

6. Verso le nuove Regioni
Un federalismo unitario e solidale deve riposare su tre fondamentali equilibri: fra regioni e regioni, fra regioni e stato federale, fra regioni italiane e regioni europee.
Ragioni di efficienza, specie per le regioni più piccole, e di risanamento della finanza pubblica suggeriscono che il problema della dimensione regionale resta fondamentale per una efficace riforma dello Stato: la Nuova Costituzione deve prevedere procedure che facilitino la scelta di riaccorpamento delle regioni.

In alcune pagine di grande rilievo, sfortunatamente dimenticate dalla cultura politica italiana, Marco Minghetti coglieva il nodo essenziale del rapporto tra spazio e istituzioni locali; in una direzione poi confermata da innumerevoli saggi economici sulla questione della dimensione ottimale dei governi: "Quanto maggiori sono le attribuzioni che si vogliono dare ad un Ente locale, tanto bisogna assicurarsi che esso abbia le forze corrispondenti a bene reggerle. Dico le forze non solo morali, ma materiali: cosicché l'ordinamento amministrativo dei comuni e delle province si collega in modo indissolubile all'ordinamento loro finanziario".
Se le ipotesi dalla Fondazione Agnelli sul terreno delle competenze e delle risorse dei governi regionali hanno qualche plausibilità, sembra confermata l'esigenza di un'attenta valutazione dei quadri-politico territoriali esistenti, per verificarne la coerenza con le prospettive di ridisegno istituzionale. Sembra cioè opportuno che ad un nuovo "regionalismo" di stampo federalista si possa accompagnare una nuova "regionalizzazione", ossia una nuova articolazione politico-territoriale dello spazio nazionale, e ciò alla luce di istanze che stanno tanto sul terreno della quantità (ossia degli equilibri tra risorse) che su quello della qualità (ossia della adeguatezza a disegni di sviluppo).
Le considerazioni già ampiamente svolte in precedenti contributi della Fondazione, particolarmente attente agli squilibri di finanza pubblica che si potrebbero realizzare nelle varie Regioni, sono ampiamente confermate dalle ulteriori ricerche successivamente avviate.
Le diseconomie di scala individuate sul terreno della spesa pubblica, che a parità di altre condizioni determinano nelle piccole Regioni maggiori livelli di spesa pro-capite, e gli ampi privilegi finanziari delle Regioni a Statuto Speciale, sono stati ampiamente confermati da nuove ricerche condotte nel 1991.
Ad analoghe conclusioni ha portato una recente verifica delle economie reali delle Regioni italiane dal punto di vista dell'impatto dell'intervento pubblico.
La debolezza strutturale di molte economie del Sud Italia, segnalata anche dagli eccezionali livelli di dipendenza della spesa pubblica, è tra gli elementi che revocano in dubbio la capacità di reggere un'autentica autonomia da parte di alcune delle attuali entità regionali; ma ancora una volta le realtà che più sembrano a rischio sono quelle di più minute dimensioni e, nel Nord, alcune Regioni a Statuto Speciale.
A questi già solidi argomenti va aggiunto un ulteriore elemento, che tuttavia si rivela importante per la definizione di una plausibile architettura federale: si tratta della necessità di realizzare alcuni equilibri istituzionali attraverso un accorto uso della leva territoriale. La problematica della taglia dimensionale delle regioni infatti non riguarda soltanto l'ambito degli equilibri fiscali, ma anche la stessa natura dei rapporti politici che si possono instaurare in una federazione, e quindi la qualità della convivenza democratica che essa potrà garantire.
a) Il primo equilibrio al quale sembra opportuno avvicinarsi riguarda gli ordini di grandezza delle Regioni all'interno della federazione. In effetti una repubblica federale che veda perfino rapporti dell'ordine di 90 a 1 tra le grandezze demografiche ed economiche dei suoi membri (è questo, all'incirca, il rapporto che intercorre tra popolazione o PIL della Lombardia e i corrispettivi indicatori di Valle d'Aosta e Molise) e che al tempo stesso postuli la loro perfetta eguaglianza, potrebbe avere qualche problema di funzionamento. Federazioni caratterizzate da marcate differenze nella taglia dei membri non sono certo sconosciute; ma proprio i problemi innescati da tali differenze hanno rappresentato una tipica falla nel loro funzionamento, attraverso la quale si è riproposto un forte ruolo dello Stato centrale. L'incapacità di gestire compiti complessi o di garantire equilibri finanziari da parte dei più piccoli stati federati è stata alla base delle tendenze alla ricentralizzazione tanto negli Usa quanto nella Germania Federale. La stessa numerosità dei membri di una federazione rappresenta un problema, qualora si postulino modalità integrate di funzionamento (federalismo cooperativo di stampo tedesco) e non una netta separazione tra livelli di stampo (federalismo duale di stampo statunitense): lezioni in tal senso vengono sia dall'esperienza tedesca, con il recente passaggio da 11 a 16 Länder dopo la riunificazione, sia dall'esperienza europea, con le crescenti difficoltà decisionali registratesi ad ogni aumento del numero dei membri della Comunità.
Un rischio opposto è peraltro rappresentato dall'emergere più o meno esplicito dell'egemonia di una Regione, o di un insieme di Regioni, sugli altri membri della federazione. E' fin troppo evidente che forti squilibri dimensionali possono portare in tale direzione, soprattutto quando, come accade in Italia, la regione più popolosa è anche la più ricca e sarà quindi la detentrice di risorse essenziali per il corretto funzionamento di un sistema di federalismo fiscale.
b) In secondo luogo, e si tratta evidentemente di una questione strettamente collegata alla prima, la questione della taglia media delle unità è essenziale anche dal punto di vista dei rapporti tra Stato e Regione. Unità troppo grandi, ed in numero troppo limitato, non possono che rappresentare un elemento di turbolenza nelle relazioni con lo Stato, soprattutto quando alcuni loro interessi divergano marcatamente. Ma unità troppo piccole e troppo numerose non possono rappresentare un efficace contro-potere rispetto allo Stato, né possono gestire efficacemente compiti impegnativi; inoltre, come si è appena detto, non garantiscono equilibri finanziari e sono quindi destinate a ricreare le condizione per una dipendenza dal centro che non può non perpetuare o riprodurre surrettiziamente un assetto centralista. Se tale rischio è già elevato con l'attuale ordinamento territoriale basato su venti Regioni, diventerebbe elevatissimo se ci si muovesse nelle direzioni accennate da alcuni progetti, che propongono di riarticolare in cento o cinquanta nuove macro-province la realtà amministrativa italiana, eliminando gli altri livelli di governo locale o regionale. Al di là della difficile praticabilità di tali prospettive, certo non federaliste, una loro inevitabile conseguenza sarebbe la riduzione di queste entità a ruoli meramente amministrativi. Parrebbe in effetti impossibile che istituzioni del genere possano avere potestà legislativa, o esercitare competenze anche soltanto analoghe a quelle, assai limitate, che l'attuale Costituzione riserva alle Regioni. Non a caso proposte simili (trenta "grandi prefetture") vennero avanzate da un anti-regionalista come Crispi nel 1891, con l'intento di dare maggior forza al governo nella periferia e non certo in un'ottica autonomista; ed è sintomatico che idee simili siano circolate negli anni settanta in Francia ad opera di esponenti della tradizione centralista, preoccupati di ridimensionare i già modesti connotati (e le ambizioni "girondine") del regionalismo francese: è il caso delle ipotesi, ormai ampiamente superate, orientate a creare una quarantina di super-dipartimenti.
c) Ma non è nemmeno un caso che, ancora in Francia, il dibattito recente abbia preso in considerazione l'ipotesi di puntare verso spazi regionali più ampi degli attuali, quanto meno come riferimento per le grandi politiche di aménagement du territoire. Ciò permette di introdurre il terzo equilibrio verso cui tendere sul piano economico-territoriale: quello tra Regioni italiane e Regioni (o omologhi livelli di governo) degli altri paesi europei. Sarebbe auspicabile far emergere entità che siano abbastanza solide da reggere il confronto europeo con aree come Baviera, Nord-Reno-Westfalia, Rodano-Alpi, Catalogna; e, ancor di più, che abbiano risorse sufficienti per configurarsi come credibili interlocutori di Bruxelles. Se la prospettiva di un ruolo diretto delle Regioni nella architettura europea non è più relegata tra le utopie federaliste, essa potrà trovare effettiva realizzazione solo a patto di essere sorretta da soggetti di adeguato respiro.
Le prime a subire i danni di una taglia inadeguata per la scala europea sarebbero, ovviamente, le piccole regioni. Come riconosce l'incaricato per le questioni europee del pur ricco Land di Amburgo (la cui popolazione è all'incirca pari a quella ligure, e il cui PIL totale è superiore a quello pugliese) "credere che Amburgo possa in qualche modo influire sugli affari europei è una mera finzione".
E' dunque utile ribadire che importanti ragioni, tra cui l'obiettivo del raggiungimento di una taglia critica nell'Europa delle regioni, che converge con la ricerca di efficienza nella spesa pubblica e con la necessità di garantire adeguati equilibri politico-istituzionali nell'ambito della architettura federale della Repubblica, sembrano spingere verso un ridisegno del riparto regionale italiano quale oggi lo conosciamo.
Dovrebbe tuttavia esser chiaro che nessuno, e men che mai la Fondazione Agnelli, vuole imporre aggregazioni forzate, o suggerire come soluzione del problema una mera operazione di ridisegno dei confini, sullo stile della geografia post-coloniale. E' evidente che nessuna autorità, comunque legittimata, potrebbe pensare di fare a meno di verificare, in forme più o meno dirette, il consenso delle popolazioni interessate. Ma sembra anche evidente come in una prospettiva imperniata su di un nuovo ruolo delle Regioni (e degli Enti locali) il legislatore non possa semplicemente chiudere gli occhi di fronte alla discrepanza tra disegni istituzionali e basi territoriali che per più versi rischia di determinarsi. Da un lato, dunque, stanno le istanze dell'autonomia, più che mai rispettabili in un disegno d'ispirazione federale; dall'altro, sta la necessità per la legislazione costituzionale di pensare insieme regole di convivenza e realtà effettuali cui tali regole si applicheranno.
Per contemperare tali esigenze, nel dibattito politico e costituzionale sono stati proposti due iter alternativi, entrambi contenuti tra le polarità delineate, ma diversi per il metodo quanto per il significato: una nuova regionalizzazione che proceda dall'alto, attraverso una modificazione dell'art.131 condotta secondo le procedure di revisione costituzionale, e sancita da qualche forma di consultazione popolare; oppure un processo federativo che parta dal basso, attraverso una revisione dell'organizzazione comunale, quindi provinciale, infine regionale, condotta tuttavia nel rispetto di una serie di standard dimensionali minimi, tra i quali, come alcuni ipotizzano, una taglia regionale non inferiore ai 4 milioni di abitanti. A nostro parere, tale soglia minima appare discutibile (soltanto Piemonte, Lombardia, Veneto, Campania e Sicilia hanno oggi più di 4 milioni di abitanti). Punto comune dei processi ipotizzati sembra comunque un certo riconoscimento di entrambe le polarità individuate: da un lato il legislatore costituzionale, anche non operando direttamente sul riparto regionale delineato dell'art.131, non può disinteressarsi completamente degli esiti finali del processo federativo, e per questo può indicare standard dimensionali.
D'altra parte, anche chi suggerisce una modalità più diretta d'intervento di nuova regionalizzazione non pensa di poterlo fare senza accertare la volontà delle popolazioni interessate, in forme più dirette di quanto consente il meccanismo della rappresentanza parlamentare (e quindi attraverso referendum o coinvolgimento dei consigli regionali).
Ciò comporterebbe naturalmente una radicale trasformazione dell'art.132.
Una strada diversa può essere percorsa a partire dalla sottolineatura delle conseguenze che un autentico federalismo fiscale potrà determinare. Se l'autonomia fiscale sarà ampia, effettiva ed equa, e quindi non frenata da norme che creino diritti di cittadinanza privilegiati a favore di determinate regioni, essa in alcune Regioni porterà a significative riduzioni degli ammontare di risorse disponibili rispetto ai livelli attuali. Tali riduzioni non colpiranno le grandi regioni del Sud, che, come si è detto, troveranno in normali meccanismi perequativi forme adeguate di sostegno allo sviluppo e alla garanzia degli essenziali diritti sociali; ma piuttosto le regioni di più piccole dimensioni, ovunque esse siano, e le Regioni a Statuto Speciale, sia pure in misure variabili.
Ora, poiché non sarebbe equo che i processi di redistribuzione delle risorse prendessero in considerazione le difficoltà determinate dalla variabile dimensionale, si può invece suggerire una fase transitoria nella quale i riaccorpamenti territoriali, su scala regionale o provinciale, siano facilitati. Tale fase di transizione dovrebbe accompagnare l'introduzione del federalismo fiscale e la sua messa a regime. Ma dovrebbe prevedere una durata di qualche anno superiore (se, parlando a puro titolo esemplificativo, si fossero stabiliti sette-otto anni per terminare il passaggio al federalismo fiscale, potrebbero essere ragionevoli dieci-dodici anni di fase transitoria nella quale agevolare i riaccorpamenti), proprio nell'ipotesi che la sperimentazione diretta degli oneri, e non dei soli onori, di un'effettiva autonomia fiscale possa indurre talune Regioni a cercare forme di stretta cooperazione, se non di integrazione, con i propri vicini. Anche questa ipotesi, che è quella che ci appare maggiormente auspicabile, comporterebbe comunque una ridefinizione dell'iter previsto nell'art.132, almeno nell'ambito delle disposizioni transitorie che una revisione costituzionale dovrà necessariamente portare con sé.


(*) Contributo tratto dalla rivista "XXI Secolo - Studi e Ricerche della Fondazione Giovanni Agnelli (Anno VI, numero 3 (11) novembre 1994, Capitoli 4 e 5)
La prima e seconda parte sono state pubblicate rispettivamente sul n.6/96 e sul n.7/97)

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